giovedì 4 giugno 2009


First, giugno 2009

Per l’equilibrio degli opposti, Oliviero Toscani, il più antisistema dei comunicatori, s’è blindato dentro la Tenuta di San Rossore, già residenza estiva del re d’Italia e del presidente della Repubblica, ora gestita dalla Regione Toscana, protetto da guardiani con gli alamari che sorvegliano posti di blocco più sicuri di ponti levatoi. «Mai avuto proprietà nel mio lavoro, non voglio lavorare per le moquette». Infatti lavora per 34 container, gli stessi inviati ai terremotati d’Abruzzo, fusi in un unico parallelepipedo di plexiglas piantato nell’erba alta. «Mi avevano promesso 2 mila metri quadrati di scuderie reali, ma dopo tre anni devono ancora fare il bando per la ristrutturazione. Tutta colpa del presidente dell’Ente parco, un burocrate parcheggiato qui dal partito, hai presente quelli che entrano nella Fgci e per tutta la vita mantengono il posto fisso? Ecco, lui era capostazione a Vecchiano, ma ha trovato nel Pci l’ufficio di collocamento. Scrivi scrivi». Per cui ora medita di trasferire il suo laboratorio rinascimentale dell’arte della comunicazione, concepito come “factory etica”, a Casale Marittimo, dove abita, e al diavolo i politici: «Volevo fare un’altra Fabrica, stavolta al servizio delle istituzioni anziché di Benetton, una bottega per l’Italia. Però c’è solo una cosa peggiore dell’arrivare in ritardo ed è arrivare in anticipo. Mi sono già trovato un ex negozio dove si vendevano i gelati Dai Dai, quelli fatti a cubetto, ti ricordi? Così almeno la smetto di sciropparmi 200 chilometri di auto al giorno per venire a San Rossore».
La Sterpaia ti accoglie con un metro di quotidiani impilati all’ingresso, più altri sparsi sui pavimenti a raccogliere l’acqua che gocciola dai soffitti di cartone. Il calendario 2009 di Toscani è lungo due metri e alto uno e mezzo. Ogni giorno e ogni mese dell’anno sono già tappezzati di post-it in tre colori: quelli gialli portano il fotografo a Berlino, in Congo, a Tokyo, a Urbino, a Parma, ad Arzignano, a Salemi, dove Vittorio Sgarbi l’ha nominato assessore ai Diritti umani e alla Creatività; quelli violetti e azzurri sono le «op», destinazioni opzionali.
Oltre che un personaggio fuori serie, Oliviero Toscani è un sincero pacifista. Da anni lo bastono a mezzo stampa. «Propongo un armistizio», ho porto il ramoscello d’ulivo. «Siamo in guerra?», ha dissimulato sorpresa. Gli ho ricordato qualche giudizio: «Un simpatico guascone abituato a campare spacciando lampi d’ovvietà per flash di genio. Lui non inventa: s’ispira semplicemente alle miserie che lo circondano. Lui non interpreta: si limita a sfruttare ogni genere di bizzarria con la perseveranza del naturalista che deve completare una collezione di scarabei stercorari. Qualora finisse la cacca, andrebbero in crisi entrambi, il fotografo e il naturalista (anche gli scarabei). Per loro fortuna si tratta di un’eventualità remota». Conclusione sua: «È perché non capisci niente». Eccomi qui per capirne di più.
Come si fa per essere assunti alla Sterpaia?«Devi avere meno di 25 anni. Non me ne frega niente del titolo di studio. “Cerchiamo sovversivi”, è lo slogan sui manifesti che ho appeso in giro per il mondo. M’interessano scrittura, grafica, pittura, musica, audiovisivi, le arti della comunicazione di massa. Vieni qui col tuo portfolio. Se mi piacciono i lavori, ti prendo: una settimana di prova gratis e sei mesi di stage retribuiti. Poi si vedrà. Sono uno dei pochi che paga gli stagisti».
Perché lei che ha compiuto 67 anni qui non prende giovani che ne abbiano più di 25?
«Dopo i 25 sei cotto. A 80 però resti bravo, hai la capacità di poter sbagliare bene».
E se arriva un genio di 30 anni che fa?
Mi parli di suo padre Fedele, fotoreporter del Corriere della Sera.«Impossibile. A 30 hanno già un lavoro. Il posto fisso è per i fessi. Io li voglio solo precari come me, precario da una vita».
«Un ingenuo di grande onestà. Si entusiasmava. “Uè, Indro, andemm in Ungheria, andemm, che gh’è la rivolusiun!”. Così trascinò Montanelli a Budapest nel 1956. Oggi avrebbero entrambi 100 anni. Dovrei dedicargli una mostra. È sua la foto del grande vecchio seduto su una pila di giornali mentre batte a macchina l’articolo con l’Olivetti Lettera 22 appoggiata sulle ginocchia. Idem la foto della macelleria messicana a piazzale Loreto. Avevo 5 anni quando mi regalò la mia prima macchina fotografica, una Rondine della Ferrania. La usai subito per riprendere il mio Bambi di pannolenci e mia madre Dolores, figlia di un socialista anarchico, una proletaria aspirante piccolo borghese che era stata mandata a lavorare sotto padrone a 6 anni».
La pubblicità deve farsi guardare, farsi ricordare o far discutere?
«Deve buttare per aria i valori convenzionali».
Giovanni Rana e Francesco Amadori vendono tanti tortellini e tanti polli mettendoci la loro faccia. Pensa che raggiungerebbero risultati migliori se si affidassero a lei?
«Penso di sì. Tanto non riusciranno a vendere più tortellini e più polli di così. Quindi potrebbero almeno investire sull’intelligenza. Sono il primo artista ad aver elevato il mercato a giudice supremo».
Che cosa pensa degli spot televisivi?
«Non ho il televisore. Sono per l’eliminazione totale della tv, la più grande sciagura nella storia dell’umanità».
Da piccolo vedeva Carosello?
«Il mio problema è che la odio perché davanti alla tv non mi sono mai addormentato. Da bambino passavo ore a guardare il monoscopio della Rai nella nostra casa di ringhiera in corso Como. I primi arrapamenti li ho avuti con le annunciatrici. Donne che parlavano a me! Oggi non ho rinunciato alla tv per snobismo, ma per difendermi da una droga. Altrimenti sarei un tossico. Come il resto dei teleidioti italiani».
Ho capito: rimpiange Carosello.
«L’unico pubblicitario influenzato da Carosello è stato Gavino Sanna. Che è anche l’unica persona al mondo pettinata come se i suoi capelli veri fossero finti».
Se lei è così bravo a far vendere, perché i direttori non le affidano le copertine delle loro riviste?
«Il mio sogno sarebbe dirigere un quotidiano. Mi candido per La Repubblica. Vorrei disallinearla. L’art director Angelo Rinaldi, vice di Ezio Mauro, ha sempre riconosciuto d’aver imparato dalla rivista Colors diretta da me. È stata la sua bibbia, e un po’ si nota».
Come vede i giornali italiani?
«Tutti uguali, cazzo! I direttori hanno facce diverse eppure fanno giornali identici. Com’è possibile?».
Chi è il direttore che stima di più?
«David Remnick del New Yorker, che vende un milione di copie perché lavora sugli articoli, lunghissimi, per settimane».
Pensa che la stampa sparirà soppiantata dal Web?
«Dipendesse da me, no. Trovo il giornale molto sexy, parlo dal punto di vista tattile: lo tocchi, lo stropicci, vai avanti, torni indietro, nati e morti, terremoti e spettacoli, hai tutto nelle tue mani. Ma al New York Times e al Guardian i redattori sono già stati avvertiti: siete destinati a diventare tutti blogger».
Se prendo una sua foto da Internet e la riproduco, lei che fa?
«Perfetto. Sono contro il diritto d’autore».
Chi sceglierebbe come suo biografo?
«Francesco Merlo».

E quale autore temerebbe di più per una biografia non autorizzata?
«Sempre Merlo».
Sull’enciclopedia Sapere della De Agostini lei ha 13 righe, Henri Cartier-Bresson quattro di meno. Soddisfatto?
«Eh be’, è il minimo. Cartier-Bresson nacque ricco. Non si confrontò mai col mercato. Non risolse i problemi della comunicazione moderna».
Si sente più fotografo o più creativo?
«Il creativo non esiste. Neanche il Padreterno, dopo la creazione, s’è spacciato per creativo. La creatività è la conseguenza di un lavoro fatto in modo speciale. Solo Lapo Elkann si definisce un creativo».
Che cos’è l’arte?
«La più alta espressione della comunicazione».
Carlo Carrà la spiegò così al mio amico gallerista Giorgio Ghelfi: «Vedi, Giorgio, il dipinto di un qualsiasi pittore, anche il più famoso, vale 30 mila lire, cornice compresa. Tutto quello che si riesce a guadagnare in più, è arte».
«Vero. Ma l’arte è anche ciò che divide gli uomini dall’ideale di perfezione al quale aspirano, una supplenza a una nostra mancanza. Gli animali non hanno bisogno dell’arte: sono già perfetti. Il settimo giorno Dio avrebbe dovuto continuare a lavorare per migliorarci. Invece si riposò. Sarà stato iscritto alla Cgil».
È diventato il numero uno nella pubblicità per sbaglio o seguendo un percorso preciso?
«Non penso d’essere il numero uno. E non m’interessa diventarlo. Penso d’essere unico, questo sì. Faccio le cose nel modo in cui voglio farle».
Se un’organizzazione cattolica le desse una barcata di soldi per una campagna contro l’aborto, accetterebbe l’incarico?
«È interessante fare qualcosa in cui non credi. Sarebbe utile per gli abortisti. La farei anche senza la barcata di soldi».
Mettiamo che per la campagna contro l’anoressia le avessero proibito la scorciatoia più scontata, cioè la foto del corpo nudo dell’attrice francese Isabelle Caro, ridotta a 31 chili di peso. Come se la sarebbe cavata?
«La qualità dell’architettura dipende dall’intelligenza del committente, non dall’architetto. Il committente non mi avrebbe mai imposto questo limite».
Ma Isabelle Caro ora come sta?
«Abbiamo appena fatto insieme un libro e un dvd, Anorexia, storia di un’immagine, nel quale mi ringrazia di non averla lasciata morire. L’ho guarita».
Il Codacons fu drastico: «Le persone malate non dovrebbero mai essere sfruttate a scopo pubblicitario».
«Vorrei sapere chi sono i sani. Quelli del Codacons?».
Lei è recidivo: aveva utilizzato anche l’uomo morente di Aids.
«Devo essere recidivo. E fuorilegge. Lo sento come un obbligo».
È anche felice?
«Sono la persona più privilegiata e fortunata che io abbia mai incontrato. Ho avuto un culo, ma un culo... La mia generazione ha inventato i Beatles, ha liberato le donne, ha cominciato a trombare dopo secoli di autoerotismo. E ora sta distruggendo la vecchiaia. L’altra sera ero al concerto di Bob Dylan: alla mia età ancora canta e suona».
Sa chiedere scusa?
«Non ci ho mai pensato. Forse l’ultima volta che l’ho fatto è stato per aver pestato un piede».
Lavorerebbe per un committente politico?
«Tutto è politica».
Antonio Di Pietro, per esempio.
«Ma chi è ’sto Di Pietro? Me l’ha già chiesto l’anno scorso. Al massimo potrei fare una campagna per Barack Obama, solo che in Italia un Barack non esiste, qui abbiamo solo i baracconi, non c’è un politico che abbia non dico un’idea ma almeno mezza. Gli unici che ce l’hanno sono i leghisti, purtroppo, vedi la storia delle impronte digitali da prendere ai rom. E passiamo per un Paese creativo. Ma dove? Ma a far cosa? Creativi a far borse e scarpe! Questo è un Paese per vecchi».
Beppe Grillo le sembra un rivoluzionario?
«No, assolutamente, un conservatore. Con le sue cagate sulla natura... Dobbiamo difenderci dalla natura, non difenderla, altroché. Lo conosco, sarebbe un brav’uomo. Ma è ottocentesco, permaloso. La sua permalosità è inversamente proporzionale al suo rispetto per gli altri».
Le piace la campagna del Partito democratico per le elezioni europee, con quei volenterosi impegnati a spingere fuori dai manifesti le parole “povertà” e “inquinamento”?
«Espedienti miserabili, da comunisti di merda. Arriva l’agenzia di pubblicità dell’amico dell’amico del compagno e si affidano a quella. Si credono cólti. Ricordo quando a Bologna, per l’ultima festa dell’Unità prima che il Pci cambiasse nome, Massimo D’Alema mi chiese di fare qualcosa. Gli preparai una scultura metallica accartocciata, alta otto metri, sopra ci incollai le fototessere di migliaia di iscritti e la chiamai La Torre di Babele. Arrivavano lì ed erano tutti contenti di vedersi. Brava gente, eh, come la mia mamma. Li ho presi per il culo e loro manco se ne sono accorti».
Impietoso.
«L’ultima volta mi ha cercato Ermete Realacci: “Domani ti chiamiamo...”. Invece hanno tirato fuori quella foto di Walter Veltroni su fondo verde, col nasone, sembrava proprio il bruco di Forattini. Roba che se me l’avesse presentata uno dei miei l’avrei cacciato all’istante. Si rivolgono ai consulenti americani perché hanno il complesso degli States, si sono accorti che la vera democrazia è là solo dopo aver combattuto gli Usa per una vita».
Vede sulla scena pubblica qualche faccia nuova?
«Hanno tutti perso almeno una volta. In un Paese civile chi perde va a casa per sempre».
Qual è il suo miglior pregio?
«L’onestà di mio padre».
E il suo peggior difetto?
«L’impazienza».
È provvisto del senso di colpa?
«Sì. Però non ho paura di aver paura».
Per che cosa si è sentito in colpa ultimamente?
«Per le solite cagate, la famiglia, quelle cose lì. Mi hanno rapinato lo sperma da giovane. Sei figli da tre donne diverse, 10 nipoti. La prima nipote è più vecchia della mia ultima figlia, Ali, chiamata così in onore di Cassius Clay, il vecchio Muhammad Ali».
Un peccato laico che non perdona.
«La malafede».
C’è una situazione o un argomento che non userebbe mai per una sua campagna?
«L’unica cosa che non posso usare è me stesso da morto».
E una fotografia che la ritrae mentre fa l’amore con sua moglie?
«Avendo ancora l’arrapamento, subito! Comunque è già accaduto tanti anni fa per il profumo Capucci. Mi sono ripreso da solo, con l’autoscatto».
Mi dica il nome di un prodotto perfetto o vicino al suo ideale di perfezione.
«Il post-it. La più grande invenzione tecnologica del secolo scorso. Non si può far meglio».
Quanto contano gli oggetti nella sua vita?
«Ho grande rispetto per la materia, perché sono un artigiano. Io non rovino le cose, le conservo. Le cose, secondo me, sono fatte per sempre».
Nel Catalogo dei viventi è riportato che lei ricama a punto croce.«Io?». (È stupefatto). «Però, mica male come idea! Non ci avevo mai pensato».
E che «non ha mai fatto ginnastica, mai un giorno di dieta, evita il più possibile medici e medicine».
«Tutto vero. Al massimo vado in bici. Esercizi e flessioni mi fanno schifo».
Lavora più per i soldi o più per la gloria?
«Né per i soldi, né per la gloria. Lavoro per esprimermi. I quattrini sono una bella conseguenza, e anche la gloria aiuta. Un artista trova nel denaro l’unico segno di riconoscimento del suo valore. Mica ci danno gli avanzamenti di carriera, a noi».
Se fossi venuto da lei per un contatto professionale, quanto mi sarebbe costata questa mattinata?
«Niente. Parlo con te perché mi piace parlare con te. Se poi ci mettiamo d’accordo sul lavoro da fare, ti presento un preventivo. Il mio tempo non ha prezzo. Solo quei poveracci degli avvocati vendono il loro tempo».
Che cosa non funzionava più nel suo rapporto con Luciano Benetton?
«Non con lui. Con l’azienda. Hanno rinnegato la mia campagna contro la pena capitale».
Lo credo. I grandi magazzini Sears respingevano i maglioni prodotti a Ponzano Veneto e lo Stato del Missouri intentò addirittura causa.
«Non è vero. Il giorno che me ne sono andato gli Usa rappresentavano ancora il 7 per cento del mercato e il marchio Benetton era uno dei cinque più conosciuti nel mondo. Va’ a vedere adesso. Nessuno si ricorda più una campagna di United Colors da quando sono uscito io. Tu ti ricordi com’era la pubblicità della Coca-Cola vent’anni fa?».
A dire il vero, no.
«Vedi? Ma tutte le mie pubblicità per Benetton te le ricordi. Questa è la differenza tra primo e unico».
Gliel’ho già chiesto durante una cena con Luciano Benetton e lei è riuscito solo ad arrabbiarsi: perché per quella campagna non scelse la Cina, che detiene il record mondiale delle esecuzioni capitali? Comodo fotografare solo i detenuti statunitensi nel braccio della morte.
«L’America è una democrazia che frigge i condannati sulla sedia elettrica o gli inietta in vena cloruro di potassio. Un controsenso. Si fotografa la miseria in via Montenapoleone, non nelle bidonville di Nairobi».
A proposito di uno spot dello shampoo Mantovani - un neonato che parlava con la voce di un bimbo di 10 anni - lei sentenziò: «È di cattivo gusto». Da che pulpito.
«Impossibile che l’abbia dichiarato. Non parlo mai di gusto. Al massimo avrò detto: non è intelligente».
Ma è lecito usare i bambini in pubblicità?
«Trovo che certe pubblicità educhino molto meglio di certi genitori».
E usare il corpo femminile non è indegno?
«Di norma, sì. Come usare i testimonial».
Però ha usato il sedere di una ragazza in hot pants per reclamizzare la nuova Unità.
«Era per L’Unità in formato mini. Un simbolo femminista, la liberazione dalla schiavitù della gonna. Fra l’altro era il culo di mia figlia Lola. Le interpretazioni parallele mi stimolano. A proposito della mia pubblicità di una donna africana che allattava un neonato europeo, un giapponese mi sbalordì: “Ho capito che cosa voleva dirci. Che il latte di tutte le donne è bianco”. Fantastico!».
Al ministero della Salute, regnante Livia Turco, ha venduto una campagna pubblicitaria con un’infermiera che aveva sulla crestina il simbolo della Croce rossa sbagliato: bianco in campo rosso. Quella è la bandiera della Svizzera. In altre parole lei ha inventato la crocebianchina.
«Sul serio?». (Si precipita davanti al computer per controllare). «È vero».
Un mio collega, Mario Natucci, sospetta che si sia ispirato alle sexy nurses, le infermiere porno rintracciabili su Internet, un classico per i malati di sesso, al punto che eBay mette all’asta camici e copricapi con la croce bianca in campo rosso.
«Eppure la crestina me l’aveva data una mia amica di Vicenza, Serena Serblin, che fa la dama sui treni per Lourdes».
Che bisogno c’era di sperperare 1,5 milioni di euro per celebrare i 30 anni del Servizio sanitario nazionale, quando nelle sale operatorie si lesina sul filo da sutura?
«È tutto opinabile. Non è che risolvi i problemi della sanità risparmiando sulla comunicazione».
Una comunicazione da lei interpretata così: «Ho risposto alla precisa richiesta del ministro Turco di rappresentare la bella sanità. La bella sanità è non ammalarsi». Grazie tante.
«La salute te la tiri dietro, come la fortuna. Tutti quelli che frignano in continuazione, ahi di qua, mi fa male là, prima o poi s’ammalano».
In una campagna per la Regione Calabria è riuscito a scrivere «Si, siamo calabresi» senza l’accento.
«L’ho fatto per i pignoli come te che stanno lì a vedere le cose inutili».
Qual è stato il giorno della sua vita in cui s’è vergognato di più?
«Quello in cui mi hanno battezzato, forse».
La prima trasgressione?
«Appena nato mi sollevarono per mostrarmi a mia madre e io le feci pipì sulla faccia. L’ha ricordato fino alla morte: “L’è pu cambià, l’è semper istess”».
Una sua campagna fu sospesa dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria «per le squallide immagini dei gay che, divertiti, si palpano». Lei replicò: «È una cosa divertente e irriverente toccare l’arnese di un altro uomo. E chi ha studiato dai preti, come me, sa bene di cosa sto parlando». Non ho studiato dai preti, quindi non so, mi spieghi.
«Frequentavo lo Zaccaria dai Barnabiti a Milano. Siccome m’infilavo nei cinema invece d’andare a scuola, i miei mi spedirono in collegio, al Filippin di Paderno del Grappa, dai Fratelli delle Scuole cristiane. Lì era tutto basato sulla padronanza del sesso. Le donne non possono fare i preti e i preti si travestono da donne mettendosi la sottana. Guarda che è ben strano, eh».
È per questo che nella puntata di Milano-Roma, in onda su Raitre nel marzo 1998, con lei alla guida di una monovolume e il cardinale Ersilio Tonini seduto a fianco, continuava a sfruculiare quel sant’uomo sulla castità?
«I preti m’intrigano. Sono modelli di una condizione impossibile. Chi fa il prete è un eccentrico, come me. Mi affascina. È bello sapere che un uomo ha le voglie ma è capace di dominarsi. Però non riesco a riconoscere il profumo di santità. Se ci fossero due porte chiuse e mi dicessero che dietro quella di destra c’è Dio e dietro quella di sinistra il diavolo, io per curiosità aprirei quella di sinistra».
Semmai da chi si farebbe convertire?
«Sono costantemente convertito. Vado in paradiso di sicuro, se c’è».
Hanno senso i manifesti contro l’esistenza di Dio sulle fiancate degli autobus?
«Chi crede ha sempre ragione. Io invece dico a Dio: il mio dio è un altro dio, non sei tu. Questo è il mio rapporto con Dio».
E chi sarebbe quest’altro dio?
«Eh, non lo so. Un altro. Io non ho bisogno di lui e lui non ha bisogno di me. Ho bisogno solo della gente che mi sta intorno».
Perché, falliti due matrimoni, il suo legame con l’ex fotomodella norvegese Kirsti Moseng dopo 30 e passa anni resiste ancora?
«Non sono falliti, sono finiti. Esistono 30 donne al mondo che vale la pena di conoscere. Mia moglie Kirsti è una delle migliori fra queste 30».
E non sente il bisogno di eternità, di ricongiungersi a lei e ai suoi figli dopo morto?
«Io sono immortale. Finché un giorno non sarà più il caso. Ma quel giorno non me ne fregherà niente dell’eternità. Sarò congiunto. Non c’è problema. Congiuntissimo».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Interessante. No... allora... vorrei... bene...». (Ci pensa). «Due s’incontrano, uno dice: “Sai l’Oliviero?”. E l’altro sorride».

Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 53 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama, First e Monsieur. Otto libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso, Vita morte miracoli, Baldus e Si ringrazia per le amorevoli cure prestate. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo.


LORENZETTO Stefano. 53 anni, veronese. Assunto a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore del Giornale e autore Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama, First e Monsieur. Otto libri: Fatti in casa, Dimenticati, Italiani per bene, Tipi italiani, Dizionario del buon senso, Vita morte miracoli, Baldus e Si ringrazia per le amorevoli cure prestate. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo.

Stefano Lorenzetto, First giugno 2009

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