martedì 26 ottobre 2010

In cerca di Salinger


Jan Hamilton 1988 - In cerca di Salinger – minimum fax, 2001

Holden, il ragazzo irrequieto.

Pg. 185 Quando non batte a macchina, contempla l’infinito. E’ un individuo profondamente serio, posseduto dalla ricerca di Dio. (Roger Machell)

Pg. 190 Gavin racconta che coltivavano il proprio cibo e non uccidevano neanche la più minuscola delle creature.

Pg. 191 Nella primavera e nell’estate del 1955, Salinger lavorò a un epitalamio di ventimila parole dal titolo “Alzate l’architrave, carpentieri”.

Pg. 192 Si potrebbe dire che ognuno di questi personaggi (i Caulfield e i Glass) esprime un importante tratto della natura di Salinger, come lui la percepiva a quell’epoca.

Pg. 218-219 Bertram Yeato, il pittore che una volta concedeva a Salinger di servirsi del suo telefono, raccontò a Mel Elfin del metodo di lavoro di Salinger. Elfin scrisse una breve biografia.

«Jerry lavora come un mulo. E’ un meticoloso artigiano che rivede incessantemente, lima e riscrive. Alle pareti del suo studio, Jerry ha una serie di ganci cui attacca con una molletta una quantità di foglietti di appunti. Credo che ogni gancio appartenga a un personaggio o a una situazione, perché, quando gli viene un’idea, tira giù la molletta, butta giù l’appunto e la rimette sul gancio. Ha anche un registro dove su una pagina è incollato un foglio del dattiloscritto e sull’altra ci sono frecce, promemoria e altri appunti per la revisione».

Pg. 226- 227 Salinger aveva Qualcosa Da Nascondere. A giudicare da quanto si può ricostruire dagli archivi di “Time” cominciava a emergere una chiara linea di indagine: la chiave della reclusione di Salinger, della sua clandestinità, si poteva comprendere decodificando i suoi due racconti più famosi, “Un giorno ideale per i pesci-banana” e “Per Esmè: con amore e squallore”. I racconti avevano due cose in comune: un eroe con i nervi molto danneggiati dalla guerra e un’eroina adolescente che per un momento sembra offrirgli la salvezza. “I pesci-banana” fu considerato il più importante dei due perché inaugurava la strana ossessione di Salinger per la famiglia Glass.
[…] Times aveva sguinzagliato i suoi reporter nel Paese con l’ordine di trovare i modelli reali di Muriel e Sybil.

Pg. 263
«E’ molto difficile rispondere. Non scrivo così. Io comincio a scrivere e vedo quello che succede».

«Lavoro con personaggi e, appena si sviluppano, vado avanti».

giovedì 29 aprile 2010

Il romanzo della rosa di Guillaume De Lorris

Frescura, freddura

Verso il roseto dovevo andare:
non c’è persona che rifiutare
possa all’AMORE quel suo comando.

Meglio tenere la bocca chiusa
Che dal linguaggio lasciare esclusa
La cortesia. Caro, hai capito?
La parolaccia scuote l’udito.
Non è elegante, non è cortese.
Uno che dice: “va a quel paese!”-
Tutte le donne servi ed onora,
al femminile “ora e labora”.
Se una linguaccia ne parla male,
se le parole di pepe e sale
Condisce quando parla a una donna,
digli che taccia, che di sua nonna o di sua madre deve parlare
quando una donna vuole oltraggiare.

Che Dio m’aiuti: questa è follia;
Di’, vuoi trovare l’atarassia?
Manda l’Amore presto in vacanza.
Fra te e l’Amore c’è intolleranza;
L’intolleranza, questo è il concetto,
spesso finisce con il rigetto.

Disquisire sul Roman de la Rose.

Leggendo il giornale

Addio a Denis Guedi, matematico e poeta divenuto celebre nel 1998 con Il teorema del pappagallo, odissea sull’origine e la storia della matematica.

Denis Guedj, lo scrittore e matematico che nei suoi saggi e romanzi ha messo in scena le scienze, la matematica e la loro storia, è morto a Parigi all' età di 69 anni. A renderlo celebre nel 1998 il suo libro Il teorema del pappagallo (Longanesi, poi Tea), odissea sull' origine e la storia della matematica. Tra gli altri libri: Il meridiano, La chioma di Berenice, Zero.
(28 aprile 2010) - Corriere della Sera

Tutti gli errori di Onfray su Freud

La polemica fra gli intellettuali dopo l’uscita del libro pieno di accuse all’autore dell'«Interpretazione dei sogni»

Michel Onfray si lamenta di ricevere critiche senza essere letto? Ebbene, l’ho quindi letto. L’ho fatto sforzandomi di mettere da parte, per quanto possibile, i vecchi cameratismi, le amicizie comuni, come anche la circostanza — ma questo era evidente — che entrambi siamo pubblicati dallo stesso editore. A dir la verità, sono uscito da questa lettura ancora più costernato di quanto lasciassero presagire le recensioni di cui, come tutti, ero venuto a conoscenza. Non che per me, come invece per altri, l’«idolo» Freud sia intoccabile: da Foucault a Deleuze, a Guattari e ad altri ancora, molti se la sono presa con lui e io, pur non essendo d’accordo, non ho mai negato che abbiano fatto avanzare il dibattito. E nemmeno sono il risentimento anti-freudiano, la collera, addirittura l’odio, come ho letto qua e là, a suscitare il mio disagio alla lettura del libro Crépuscule d’une idole.

L’affabulation freudienne (Grasset): si fanno grandi libri con la collera! E che un autore contemporaneo mescoli i propri affetti con quelli di un glorioso predecessore, che si misuri con lui, che faccia i conti con la sua opera in un pamphlet che, nell’ardore dello scontro, apporta argomenti o chiarimenti nuovi è, in sé, qualcosa di piuttosto sano. Del resto, Onfray l’ha fatto spesso, altrove, e con vero talento. No, non è questo. Quel che infastidisce nel Crépuscule d’une idole è di essere banale, riduttivo, puerile, pedante, talvolta al limite del ridicolo, ispirato da ipotesi complottistiche assurde quanto pericolose; e di adottare — il che è forse la cosa più grave — il famoso «punto di vista del cameriere», di cui nessuno ignora, a partire da Hegel, che raramente sia la persona più adatta a giudicare un grand’uomo o, peggio ancora, una grande opera... Banale: come unico esempio, cito la piccola serie di libri (Zwang, Debray-Ritzen, René Pommier) ai quali Onfray ha l’onestà di rendere omaggio, oltre ad altri testi, alla fine del volume, che già difendevano la tesi di un Freud corruttore dei costumi e foriero di decadenza.

Riduttivo: ci vuole un bel fegato per sopportare, senza ridere o senza spaventarsi, l’interpretazione quasi poliziesca che Onfray dà del bel principio di Nietzsche, che pure conosce meglio di chiunque altro, secondo cui una filosofia è sempre una biografia criptata o mascherata (grosso modo: se Freud inventa il complesso di Edipo è per dissimulare i pensieri pieni di rancore che nutre nei confronti del suo gentile papà e per riciclare le turpi pulsioni che prova verso sua mamma). Puerile: il rimpianto di non aver trovato, nelle «seimila pagine» delle opere complete di Freud, la «schietta critica del capitalismo» che avrebbe riempito di soddisfazione Michel Onfray, creatore dell’università popolare di Caen. Pedante: le pagine in cui Onfray si chiede con gravità quali debiti inconfessabili il fondatore della psicanalisi avrebbe contratto, ma senza volerlo riconoscere, verso Antifone di Atene, Artemidoro, Empedocle o verso l’Aristofane del Simposio di Platone. Ridicolo: è la pagina in cui, dopo oscure considerazioni sul probabile ricorso di Freud all’onanismo, poi un non meno curioso tuffo nei registri degli alberghi, «la maggior parte lussuosi», dove il viennese avrebbe protetto, per anni, i suoi amori colpevoli con la cognata, Onfray, trascinato da uno slancio da poliziotto della Buoncostume, finisce con il sospettarlo di aver messo incinta la suddetta cognata che, all’epoca, era giunta a un età in cui questo tipo di lieto evento si verifica, salvo nella Bibbia, molto raramente.

Il complotto: come nel Codice da Vinci (ma la psicanalisi, secondo Onfray, non è forse l’equivalente di una religione?), il complotto è l’immagine vagheggiata di giganteschi «container» di archivi sotterrati, in particolare, nelle cantine della Biblioteca del Congresso a Washington, alle cui porte veglierebbero milizie di templari, freudiani cupidi, feroci, astuti come il loro venerato maestro. Infine, il punto di vista del cameriere: è il metodo, sempre bizzarro, che consiste nel partire dalle presunte piccole debolezze dell’uomo (l’abitudine freudiana di scegliere egli stesso — chissà perché! — il nome di battesimo dei figli «sulla base della propria mitologia personale»), dalle sue non meno presunte stranezze (sete di gloria, ciclotimia, aritmie cardiache, tabagismo, umore oscillante, piccole prestazioni sessuali, paura dei treni: non invento nulla, questo catalogo di «tare» si trova nel libro); eventualmente dai suoi errori (come la dedica a Mussolini, da sempre nota, ma che Onfray sembra scoprire e che, estratta dal contesto, lo fa sprofondare in uno stato di grande frenesia) per dedurne la non validità della teoria nel suo insieme. Onfray raggiunge il colmo quando, alla fine del libro, ricorre addirittura al testo di Paula Fichtl, cioè ai ricordi di colei che fu la cameriera, per cinquant’anni, della famiglia Freud e poi dello stesso Sigmund, per denunciare le relazioni dell’autore di Mosè e il monoteismo con il fascismo austriaco. Tutto questo è desolante. Mi riesce penoso, in tutti i sensi del termine, ritrovare in tale tessuto di banalità, più stupide che malvagie, l’autore di libri — fra gli altri Il ventre dei filosofi (Rizzoli, 1989) — che vent’anni fa mi erano parsi così promettenti. La psicanalisi, che ha visto ben altro, si rimetterà. Quanto a Michel Onfray, ne sono meno sicuro.

Bernard-Henri Lévy
(traduzione di Daniela Maggioni)
29 aprile 2010

Cultura Anniversari A cento anni dalla morte, Iperborea ripropone uno dei capolavori dello scrittore. Il rigore morale e le contraddizioni della vita
Quando la patria dimentica i padri
L' eredità riscoperta di Bjørnson, Nobel norvegese Il luogo e il tema In una natura desolata, scienza e fede si contendono vanamente la soluzione del mistero legato all' esistenza

I padri non hanno vita facile, anche e specialmente in letteratura, e non godono di buona stampa, a differenza dei figli, cui va l' istintiva solidarietà e simpatia perché li si vede incompresi, generosi pur nelle trasgressive ribellioni, fragili anche nell' aggressività magari ingiusta, nobili nella radicalità pur prevaricatrice. I padri rappresentano la responsabilità, con tutta la grandezza, la seriosità e la fatale compromissione legate ad ogni responsabilità; quest' ultima è più difficile e complessa della passione, ma è certo meno attraente. Siamo tutti dalla parte di Edipo che uccide Laio; anche nella parabola evangelica il protagonista è il figliol prodigo, non il padre, che pure ha il compito più ingrato e difficile, quello di accoglierlo con slancio ma anche con avveduta attenzione, per far capire all' altro fratello che non gli si vuole far torto. In quella parabola, che per la fede cristiana è scritta dalla stessa verità divina, il padre è figura di Dio e il figliol prodigo dell' uomo; evidentemente gli uomini, con il loro disordine e le loro cadute, destano, per la retorica pappa del cuore, più interesse di Dio con la sua universalità che deve tener conto di tutto e di tutti. Pure in letteratura i grandi padri - gli scrittori che esercitano un eminente ruolo rappresentativo e simbolico, padri della Patria, campioni della Libertà e del Progresso, eroi del Dissenso - corrono forti rischi. In genere, dopo un' iniziale periodo di gloria marmorea, incorrono nell' oblio o nell' irrisione. Bjørnstjerne Bjørnson - il grande scrittore norvegese di cui ricorre il centenario della morte e del quale Iperborea ripubblica uno dei capolavori, Al di là delle forze umane, ottimamente tradotto e presentato da Giuliano D' Amico - è uno di questi numi tutelari prima osannati e poi accantonati. Bjørnson ha tutti i requisiti per subire l' ingiusto destino dei grandi Padri Fondatori. Premio Nobel nel 1903, autore del testo dell' inno nazionale della Norvegia divenuta Stato indipendente nel 1905, egli è stato celebrato in tutta Europa (D' Amico ricorda, ad esempio, le solenni commemorazioni ufficiali per la sua morte in Italia). Autore poliedrico di racconti paesani - come il nostalgico e struggente idillio Synnöve Solbakken - romanzi borghesi di critica sociale e soprattutto di possenti drammi, Bjørnson ora sembra quasi dimenticato. Democratico generoso, si è battuto per le minoranze allora oppresse - ad esempio per gli slovacchi - ed ha affrontato grandi temi ottocenteschi, la critica alle istituzioni borghesi, all' ipocrisia sociale e alle menzogne convenzionali su cui si reggono le gerarchie politiche, economiche ed etiche. Nutrito di cultura positivista, è stato un progressista radicaleggiante, non senza evitare il rischio di un moralismo ottimista impari alle inquietudini e alle lacerazioni della vita e soprattutto della modernità. In ogni responsabile padre - di famiglia o della patria - ci può essere un pizzico del padre di Armando nella Signora della camelie, che allontana la donna pericolosa e irregolare amata dal figlio, nel quale peraltro ci può essere un pizzico del bambino viziato cui tutto è dovuto. «Falso come un oratore ufficiale», disse Strindberg di Bjørnson. Ma il grandissimo Strindberg era, in questo caso, irresponsabilmente ingiusto; del resto aveva il bisogno di esserlo, nella parabola della sua vita e della sua creazione. C' è una grande, geniale inquietudine in Bjørnson, una fortissima sensibilità per le contraddizioni della vita, che egli coglie e rappresenta con grande potenza poetica. Negli anni della sua vita e della sua opera, la Norvegia, questa incantevole e appartata periferia d' Europa, diviene una capitale della letteratura mondiale; dai suoi fiordi solitari, dalle sue aspre montagne e dai suoi boschi silenziosi, nasce una letteratura che esprime, con straordinaria genialità, la trasformazione epocale che stava avvenendo nella storia d' Europa e nella psiche dell' individuo, mutandolo radicalmente. Sono grandi voci come quelle di Lie e Kjelland, i cui bellissimi romanzi borghesi ispirarono Thomas Mann; il genio assoluto di Ibsen, forse ancora insuperato nella rappresentazione di una drammatica lacerazione della nostra civiltà non ancora sanata; e appunto Bjørnson. Nato a Kvikne, fra le desolate montagne, e cresciuto nella parrocchia paterna di Nesset, anche Bjørnson è uno di quei «figli di pastori» cui la letteratura tedesca e nordica deve tante grandissime pagine poetiche e filosofiche che hanno indagato a fondo la crisi della civiltà. Pure Bjørnson, come Lessing o Nietzsche, ha appreso dalla parrocchia luterana un' esigenza di rigore morale che spinge ad analizzare spietatamente lo stesso Cristianesimo e le sue Chiese, contestandole in nome di un bisogno di verità assorbito dal Cristianesimo stesso. Come altri, Bjørnson ha denunciato il rigido dogmatismo della Chiesa luterana in nome di un più libero cristianesimo del cuore. Come quella del ben più grande Ibsen, la sua opera vive di una feconda contraddizione tra la rivendicazione della vitalità e una severità morale che se si ribella alle norme convenzionali, pure soffoca, con la sua stessa inflessibilità etica, i desideri e le pulsioni anarchiche della vita. Al Cristianesimo viene imputato di reprimere la vita, ma esso rivela invece, a Bjørnson come a Ibsen, una terribile forza vitale, capace di guardare in faccia la selvaggia demonicità dell' esistenza e della morte, dell' eterno e dell' effimero che entrambi annientano l' uomo e che il nobile moralismo laico è impari ad affrontare. Il Cristianesimo si rivela affine alla travolgente potenza della natura celebrata e temuta in Al di là delle nostre forze; una smisurata natura nordica, ignara di umanesimo e di misura. Dinanzi ad essa, lo scontro tra l' uomo di scienza e l' uomo di fede è una piccola, ma non per ciò meno tragica commedia intellettuale. Con il suo positivismo, Bjørnson è certo più vicino all' uomo di scienza, ma è l' uomo di fede, il pastore Sang - al quale egli è ideologicamente avverso - quello più capace di resistere alla distruttiva violenza del vivere. Scienza e fede si contendono vanamente la spiegazione del mistero; alla letteratura, ha scritto Javier Marías, compete raccontare il mistero senza spiegarlo ed è ciò che fa con alta poesia Al di là delle nostre forze. RIPRODUZIONE RISERVATA

Magris Claudio, 28 aprile 2010, Corriere della Sera

giovedì 22 aprile 2010

Pietro citati, La colomba pugnalata

A Parigi, un giorno Reynaldo Hahn e Proust andarono al Jardin d’Acclimatation, dove c’era un gruppo di colombes poignardèès, - le colombe che portano sul petto una macchia rossa simile a una ferita insanguinata. Forse Robert de Montesquiou aveva parlato loro con entusiasmo di quegli uccelli privilegiati. Reynaldo osservò che “con la loro ferita rossa e come ancora calda” le colombes poignardèes “sembrano ninfe che si sono suicidate per amore e che un dio ha mutato in uccello”. Quel giorno Proust le contemplò a lungo, e le amò sempre profondamente. Sofferenza

I due filosofi di Rembrandt, ammirato da Proust al Louvre, in compagnia di Lucien Daudet.

Né la nonna né la madre di Marcel avevano paura del male, il loro animo era troppo puro per temerlo. Senza preoccuparsi delle curiosità malsane o delle situazioni ardite, o delle parole crude, non sapevano cosa fosse la pudibonderia. Temevano una sola cosa: la volgarità, la frivolezza. Male

In una lettera a Albert Thibaudet, per scusarsi di un presunto difetto nel carattere del protagonista della Recherche, egli scrisse: “Il fatto che in tutta la mia vita ho sempre pensato pochissimo a me stesso”. La frase sembra strana, se ricordiamo che Proust estrasse un romanzo di tremila pagine dalla sua vita, come il più infaticabile baco da seta: ma è esatta. Proust non pensava a sé stesso, prestava poca attenzione al suo io, bon badava alla propria persona; e se pensava a sé stesso credeva di non avere talento. Io, talento

Mai, né nel Jean Santeuil né nel Contre Sainte-Beuve né nella Recherche, egli ebbe il dono della forma rapida e assoluta: non era kafka che si poneva al tavolino dopo ore di lavoro di ufficio, senza schemi né abbozzi, e subito trovava l’espressione definitiva di un pensiero tremendamente complesso. Se gli scrittori aridi soffrono di povertà di idee, Proust soffriva per sovrabbondanza di idee e di sensazioni e di sottosensazioni e di sottosentimenti. C’era sempre un ingorgo, che lo faceva piombare nell’informe, e a volte gli faceva credere di non avere talento. Così doveva lavorare come un pittore: scriveva per approssimazioni e velature successive, aggiungendo sfumature a sfumature, colore a colore, rapporto a rapporto, trovando alla fine di questo lavoro inesausto la perfezione pastosa e piena di echi del suo stile fondu. Stile, idee

E quando concepì la sua cattedrale, conquistò proprio il dono che la madre, il padre, il nonno, Emerson gli imputavano di non avere: la volontà. Chiuso in casa, senza vedere nessuno, inflessibile, intangibile, si dedicò soltanto al suo libro, come se nient’altro al mondo esistesse e nient’altro esisteva). Si ammalò. Per amore del suo libro, non volle curarsi. Morì per eccesso di volontà, mentre la sua cattedrale restava incompiuta. Volontà, malattie

[…] la tenerezza morbida e radiosa che si avvicinava agli esseri per condividerne ogni piega; e poi il dono di trasformarsi in una moltitudine; e infine quella specie di sottile, inebriato stato di trance, che gli amici specie nella giovinezza riconoscevano in lui, sia di fronte ad un arbusto sia a una persona sia a una colombe poignardée. Trance

Presenza anagramma di speranze.
Un amico o una persona amata avevano una presenza reale accanto a lui e dentro di lui, sebbene fossero separati dalla distanza di una lettera o di una linea telefonica. Il loro corpo era lì, come l’ostia nel ciborio.

Gli altri sono incomprensibili. Negli altri non si penetra mai. Il mistero che si estende tra due individui non è meno oscuro di quello che divide l’Idea e la Realtà. Idea

Il dolore era la vera arma per penetrare nel cuore degli altri: uno strumento al quale nessuno era pari. Aveva letto Schopenhauer, e come lui pensava che l’amore puro fosse “per essenza pietà”. E pietà, compassione era anche l’amicizia. Lui non credeva che l’amicizia fosse un “voluttà spirituale e casta”, come scrisse una volta a Vaudoyer: l’amicizia dei filosofi e di Cicerone. Non era nulla di così limitato e misurato: ma sofferenza, rinuncia, sacrificio, perdita di sé, immolazione dostoevskijana. Ebbe la rivelazione di cosa fosse per lui l’amicizia, quando ascoltò il Parsifal di Wagner. Giunse alla scena nella quale Kundry bacia Parsifal. In quel momento Parsifal ha un gesto di spavento: preme il cuore con le mani: baciando Kundry, ha rinnovato in sé il bacio di Amfortas, la sua passione, la sua colpa, la sua piaga, che ora sanguina terribilmente nel proprio cuore. Egli è diventato Amfortas, con un’identificazione assoluta, perché la sua sola scienza è: Durch Mitleid wissend, “Sapere attraverso la compassione”. L’illuminazione di Parsifal colpì profondamente Proust, tanto che la paragonò, in una nota della Recherche, all’illuminazione che rivelava al suo eroe, nella biblioteca dei Guermantes, l’essenza della memoria, del tempo e dell’eternità. Amicizia, sofferenza

Rivedere pg. 83

Quando incontrò il primo lillà in fiore, che avrebbe dovuto essere del tutto inoffensivo, venne assalito da una tale crisi di asma, che i piedi e le mani gli divennero violacee come quelle degli annegati. Malattie

Per venti o trenta o quaranta ore, Proust subiva la crisi d’asfissia: non poteva respirare, né parlare, né mangiare, né scrivere: impallidiva, aveva sudori freddi, il corpo gelava; e la febbre saliva fino al delirio.

Proust visse come un gufo: uno strano gufo, figlio della luce, che non sopportava di vivere la notte. Rimase sempre il bambino, di cui racconta il Jean Santeuil. Nella Recherche: “Io, lo strano essere umano, che, attendendo che la morte lo liberi, resta immobile come un gufo e, come lui, vedo un po’ chiaro soltanto nelle tenebre”. morte

Amava Ruskin e le sue montagne ne®vose

mercoledì 21 aprile 2010

Romain Rolland, Vita di Beethoven

Era piccolo e tozzo, dal collo grosso e dall’ossatura atletica. Aveva il viso largo, color rosso mattone, tranne che verso la fine della vita quando gli venne un incarnato malaticcio e giallastro, soprattutto d’inverno, che doveva starsene chiuso in casa, lontano dai campi. La fronte era potente e rilevata; i capelli estremamente neri, irti e spessi, tanto che sembravano non esser mai stati pettinati: veri “serpenti della Medusaù”. J. Russel 1822

Gli occhi brillavano di una forza prodigiosa che afferrava tutti quelli che lo incontrassero. […] Poiché fiammeggiavano selvaggiamente in un viso bruno e tragico, furono generalmente considerati neri: erano invece grigio azzurri. Il pittore Kloeber, che gli fece il ritratto verso il 1818.

Il suo viso si trasfigurava, sia in un accesso di improvvisa ispirazione, uno di quegli impeti che lo prendevano anche in mezzo alla strada e che facevano stupire i passanti, sia quando lo si sorprendeva al cembalo. “I muscoli del viso si rilevavano, le vene diventavano gonfie, gli occhi selvaggi due volte più terribili, la bocca tremava; pareva un mago sopraffatto dai demoni da lui stesso evocati”, come un personaggio di Shakespeare. Kloeber.
Julius Benedict afferma che pareva re Lear.

Plutarco ha insegnato a Beethoven l’arte della rassegnazione.

La Sinfonia in do maggiore: il poema di un adolescente che sorride ai suoi sogni.

Nel 1801 oggetto della sua passione fu Giulietta Guicciardi. Era lei civetta, fanciullesca, egoista, e fece soffrire Beethoven sposando nel novembre 1803 il conte Gallenberg.

Dell’inflessibile senso morale: “Raccomandate ai vostri figli la Virtù, solo questa può rendere felici, non già il denaro. Parlo per esperienza: è la virtù che mi ha sostenuto nella miseria, è alla virtù che devo, insieme con l amia arte, di non aver posto termine alla mia vita con il suicidio”.
A Wegeler: “S’io non avessi letto in qualche libro che non ci si deve separare volontariamente dalla vita sinchè si può ancora compiere una buona azione, già da tempo sarei morto e senza dubbio per mano mia”.

Shakespeare era il suo idolo. L’appassionata prese ispirazione dalla Tempesta di Shakespeare, da lui considerata come la più potente delle sue sonate.

Vita di Beethoven di Frimmel.

“Non conosco altro segno di superiorità che l’essere buoni”, scrive il 17 luglio 1812.

Goethe cercò di conoscere Beethoven. I due grandi artisti si incontrarono in Boemia, ai bagni di Toeplitz, nel 1812, ma non si comprensero affatto.
“Goethe e Schiller sono i miei poeti preferiti, con Ossian e Omero, che disgraziatamente non posso leggere che tradotti”.

“Io sono il Bacco che mesce il vino all’umanità. Sono io che do agli uomini la divina frenesia dello spirito”.

Spohr dice che Beethoven doveva spesso restare in casa per colpa delle scarpe bucate.

Il nipote Carlo: “Sono diventato più cattivo perché mio zio voleva che diventassi migliore”.

“Quando mi viene un’idea, la concepisco sempre per uno strumento, mai per una voce”.

“Sacrifica, sacrifica sempre le sciocchezze della vita alla tua arte!” Dio soprattutto!”

Scriveva al nipote: “La nostra epoca ha bisogno di robusti spiriti per staffilare queste miserabili e perdute anime umane”.

Sul suo letto di agonia, il 17 febbraio 1827, dopo tre operazioni, attendeva la quarta; scrive con serenità: “Aspetto con pazienza e penso che ogni male porta con sé qualche bene”.

Morì durante un uragano, una tempesta di neve, proprio nell’attimo in cui scoppiava un tuono. Una mano straniera gli chiuse gli occhi. Era il 26 marzo 1827.

Grillparzer: “Giunse sino al punto pericoloso in cui l’arte si fonde con gli elementi selvaggi e capricciosi”.
Schumann scrive della Sinfonia in do minore: “Per quanto la si ascolti, ogni volta esercita su noi un invisibile potere, come quei fenomeni della natura che, per quanto siano frequenti, ci riempiono ogni volta di timore e di meraviglia”. E Schindler, suo confidente: “S’impadronì dello spirito della natura”.

Ed ecco le nuvole gonfie di fulmini, nere di notte, colme di tempesta all’inizio della Nona.

La gioia attraverso la sofferenza.
Durch Leiden Freude.

Alla fine del secondo tempo della Sinfonia Pastorale, l’orchestra fa sentire il canto dell’usignolo, del cuculo e della quaglia; e si può dire che quasi tutta la sinfonia sia intessuta di canti e mormorii della natura.

“Voglio afferrare il destino alla gola: esso non riuscirà a piegarmi del tutto!”.

Pensieri di Beethoven sulla musica.
La musica è una rivelazione più profonda di ogni saggezza e di ogni filosofia… Chi penetra il senso della mia musica potrà liberarsi delle miserie in cui si trascinano gli altri uomini. A Bettina, 1810.

Perché scrivo? Tutto quello che ho nel cuore deve uscire: ecco perché.

Credete che pensi a un dannato violino, quando lo Spirito mi parla e scrivo ciò che mi detta? A Schuppanzich

Non ho l’abitudine di ritoccare le mie composizioni, un avolta che le ho terminate. Non l’ho mai fatto, convinto che ogni mutamento parziale alteri il carattere della composizione. A Thomson

Fra gli antichi maestri, solo Haendel il tedesco e Sebastiano Bach ebbero del genio. All’arciduca Rodolfo, 1819

Il modo di suonare di Beethoven non era corretto, la sua maniera di diteggiare era spesso errata e il suono trascurato. Ma chi poteva badare all’esecutore? Si era afferrati dai suoi pensieri, in qualunque maniera le mani li esprimessero. Barone di Trèmont, 1809

giovedì 15 aprile 2010

Come Proust può cambiarvi la vita. Alain de Botton




Per un attimo si sperò che potesse guarire quando, alzatosi a sedere sul letto, chiese una sogliola alla griglia, ma dopo che il pesce fu comprato e cucinato, Proust fu preso dalla nausea e non riuscì a toccarlo. Morì poche ore più tardi per un ascesso a un polmone.

La ricerca delle cause che stanno dietro allo spreco e alla perdita di tempo è uno dei temi centrali della Recherche.

“Ah, Céleste”, disse, “se fossi sicuro di poter fare con i miei libri quello che mio padre ha fatto per i malati”.

Dopo la sua morte, l’amico Lucien Daudet scrisse un libro di ricordi proustiani; tra gli altri c’è il racconto di una visita al Louvre. Ogni volta che guardava un quadro, Proust aveva l’abitudine di cercare di far corrispondere i personaggi rappresentati sulla tela alle persone che conosceva nella vita reale. Daudet racconta di un dipinto di Domenico Ghirlandaio intitolato Vecchio e nipote.
Proust osservò il quadro del Ghirlandaio per un momento, poi si girò verso Daudet e gli disse che quell’uomo era l’immagine sputata del marchese de Lau, una figura molto nota nel bel mondo parigino.

“Esteticamente, la gamma dei tipi umani è troppo limitata perché non si provi di frequente, ovunque si vada, la gioia di rivedere persone conosciute”.

“uno non può leggere un romanzo d’amore senza attribuire allperoina i tratti della persona che ama”

Albertine, vista l’ultima volta mentre passeggiava per Balbec con i suoi magnifici occhi ridenti

Come disse il fratello di Proust, Robert, “La cosa triste è che le persone devono essere molto malate o devono essersi rotte una gamba per avere la possibilità di leggere la Recherche”.

Alfred Humblot: “Non riesco a capire perché un tizio abbia bisogno di trenta pagine per descrivere come si agita e si rigira nel letto prima di addormentarsi”.

Proust era più spaventato dai topi che dai cannoni

Ottantatrè volte si era pulito il naso dall’inizio di una lettera lunga tre pagine scritta per Reynaldo Hahn. Versaille è a ottantatrè metri sopra il livello di Parigi e Proust non riesce a salire le scale dopo aver fatto ritorno a Parigi.

P. diceva di essere sospeso tra la vita e la morte sei giorni su sette.

Se era sempre stato così malato, affermava Hauser, dipendeva dall’essere rimasto a letto tutta la vita con le tende chiuse rifiutando i due elementi fondamentali per una buona salute: il sole e l’aria fresca.

“L’intera arte del vivere consiste nel trarre vantaggio dalle persone che ci fanno soffrire”.
“Le idee sono i succedanei dei dolori; nel momento in cui questi si trasformano in idee, perdono una parte della loro azione nociva sul nostro cuore.

Chi non conosceva Proust molto bene aveva la deprimente tendenza a chiamarlo col nome di uno scrittore contemporaneo all’epoca molto più famoso: Marcel Prévost. “Sono totalmente sconosciuto”, riconobbe Proust nel 1912.

Proustificare, coniato Da Fernand Gregh: “per esprimere un atteggiamento, non del tutto involontario, di gentilezza e di interminabile, deliziosa affettazione”.

La primavera di Millet, uno dei suoi quadri preferiti.

La cameriera di Proust era un’idiota: credeva che Napoleone e Bonaparte fossero due persone diverse, e si rifiutava di credere a Proust quando le spiegava che non era così.

“Mentre scrivevo il mio libro, sentivo che se Swann mi avesse conosciuto e avesse potuto servirsi di me, avrei saputo rendere Odette innamorata di lui.

Proust malato chiuso nell’arca. “Capii allora che Noè non avrebbe mai potuto vedere il mondo così bene come dall’arca, benché fosse completamente chiusa e fosse notte sulla terra”.

Nel 1899 in autunno andò in vacanza sulle alpi francesi, alla stazione termale di Evian, ed è qui che lesse e si innamorò delle opere di John Ruskin, il critico d’arte inglese noto per i suoi scritti su Venezia, Turner, il Rinascimento italiano, l’architettura gotica e i paesaggi alpini.

Illiers-Combray. In un angolo della rue du Docteur Proust, alla porta della panetteria-pasticceria è appeso un grande cartello che lascia un po’ sconcertati: “La casa in cui zia Léonie comperava le sue madeleine”.

Non è Illiers-Combray che dobbiamo visitare: se vogliamo davvero rendere omaggio a Proust dobbiamo cominciare a guardare il nostro mondo attraverso i suoi occhi, e non guardare il suo mondo attraverso i nostri occhi.

mercoledì 14 aprile 2010

Lettera di una sconosciuta, Stefan Zweig

Ogni cosa esisteva solo in quanto aveva un rapporto con te, ogni cosa nella mia esistenza aveva senso solo se era legata a te. Tu trasformasti, tutta intera, la mia vita. Fino allora apatica e mediocre a scuola, divenni d’un tratto la prima della classe, leggevo un’infinità di libri sino a notte fonda perché sapevo che tu amavi i libri; di punto in bianco – lasciando stupefatta mia madre – cominciai a esercitarmi al pianoforte con perseveranza, quasi con caparbietà, perché credevo che tu amassi la musica.

Ero sempre concentrata su di te, sempre in tensione e in movimento; ma tu non potevi sentirlo, così come non senti la tensione nella molla dell’orologio che porti nel taschino e che, nel buio, conta e misura pazientemente le tue ore, accompagna i tuoi passi, con il suo impercettibile battito e sul quale il tuo sguardo cade frettoloso per uno appena fra i milioni di tic tac, fra i milioni di secondi.

Tu non lo hai mai conosciuto, il nostro povero bambino – oggi mi faccio una colpa di avertelo tenuto nascosto, perché tu lo avresti amato. Non lo hai mai conosciuto, povero piccolo, non lo hai mai visto sorridere quando sollevava piano le palpebre e, con i suoi occhi scuri e intelligenti – i tuoi occhi! -, gettava una luce chiara, una luce gioiosa su di me e su tutto il mondo. Ah, era così gaio, così amabile: tutta la leggerezza del tuo essere si ritrovava in lui, nella sua versione infantile; in lui si rinnovava la tua fantasia pronta, vivace; per ore e ore poteva giocare infervorato con i suoi balocchi, così come tu giochi con la vita, e poi tornare a sedersi davanti ai libri, tutto serio e con la fronte aggrottata.

Allora in quella sala parto, all’Ospizio di Maternità, ho toccato con mano tutto l’orrore della miseria, ho capito che a questo mondo il povero viene sempre calpestato, sempre umiliato, è la vittima; e io non volevo, a nessun prezzo, che il tuo bambino, il tuo bambino così radioso e bello, crescesse in basso nella freccia, nel marciume, nella volgarità della strada, nell’aria metifica di una stanza sul cavedio.

Oh, ero profondamente consapevole della bassezza, dell’ingratitudine, dell’infamia che stavo commettendo verso un amico sincero, sentivo che il mio comportamento era ridicolo e che con la mia follia ferivo a morte e per sempre una persona buona, mi rendevo conto che stavo spezzando la mia vita – ma che cosa contava per me l’amicizia, che cosa contava per me la vita in confronto alla mia impazienza di sentire di nuovo le tue labbra su di me, di udire di nuovo, rivolte a me, le tue parole suadenti? A tal punto ti ho amato, e adesso che tutto è passato, che tutto è finito, posso dirtelo. E credo che, se tu mi chiamassi da questo mio letto di morte, troverei all’istante la forza di alzarmi e di venire da te.

Mi avevi baciata, e ancora una volta appassionatamente. Dovetti risistemare i capelli che mi si erano scompigliati e, mentre ero davanti allo specchio, proprio nello specchio ti vidi – e credetti di svenire per la vergogna e l’orrore – ti vidi infilare con discrezione un paio di banconote di grosso taglio nel mio manicotto. Come ho fatto, in quell’istante, a non gridare, a non darti uno schiaffo: me, per quella notte tu hai pagato me, colei che ti ha amato fin da quando era bambina, me, la madre di tuo figlio! Una sgualdrina del tabarin: questo ero ai tuoi occhi, niente di più, e mi hai pagata, pagata! Non bastava che tu ti fossi dimenticato di me, dovevo anche subire una simile umiliazione.

Lo sguardo gli cadde allora sul vaso azzurro, lì davanti a lui sulla scrivania. Era vuoto, vuoto per la prima volta dopo tanti anni nel giorno del suo compleanno. Trasalì, sgomento: fu come se, all’improvviso, una mano invisibile avesse aperto una porta e una corrente fredda fosse penetrata da un altro mondo nella quiete della sua stanza. Percepì una morte e un amore immortale: qualcosa gli si spezzò nel profondo dell’anima e, per la creatura invisibile, egli ebbe un pensiero incorporeo e appassionato come per una musica lontana.

(Brief einer Unbekannten)