giovedì 22 aprile 2010

Pietro citati, La colomba pugnalata

A Parigi, un giorno Reynaldo Hahn e Proust andarono al Jardin d’Acclimatation, dove c’era un gruppo di colombes poignardèès, - le colombe che portano sul petto una macchia rossa simile a una ferita insanguinata. Forse Robert de Montesquiou aveva parlato loro con entusiasmo di quegli uccelli privilegiati. Reynaldo osservò che “con la loro ferita rossa e come ancora calda” le colombes poignardèes “sembrano ninfe che si sono suicidate per amore e che un dio ha mutato in uccello”. Quel giorno Proust le contemplò a lungo, e le amò sempre profondamente. Sofferenza

I due filosofi di Rembrandt, ammirato da Proust al Louvre, in compagnia di Lucien Daudet.

Né la nonna né la madre di Marcel avevano paura del male, il loro animo era troppo puro per temerlo. Senza preoccuparsi delle curiosità malsane o delle situazioni ardite, o delle parole crude, non sapevano cosa fosse la pudibonderia. Temevano una sola cosa: la volgarità, la frivolezza. Male

In una lettera a Albert Thibaudet, per scusarsi di un presunto difetto nel carattere del protagonista della Recherche, egli scrisse: “Il fatto che in tutta la mia vita ho sempre pensato pochissimo a me stesso”. La frase sembra strana, se ricordiamo che Proust estrasse un romanzo di tremila pagine dalla sua vita, come il più infaticabile baco da seta: ma è esatta. Proust non pensava a sé stesso, prestava poca attenzione al suo io, bon badava alla propria persona; e se pensava a sé stesso credeva di non avere talento. Io, talento

Mai, né nel Jean Santeuil né nel Contre Sainte-Beuve né nella Recherche, egli ebbe il dono della forma rapida e assoluta: non era kafka che si poneva al tavolino dopo ore di lavoro di ufficio, senza schemi né abbozzi, e subito trovava l’espressione definitiva di un pensiero tremendamente complesso. Se gli scrittori aridi soffrono di povertà di idee, Proust soffriva per sovrabbondanza di idee e di sensazioni e di sottosensazioni e di sottosentimenti. C’era sempre un ingorgo, che lo faceva piombare nell’informe, e a volte gli faceva credere di non avere talento. Così doveva lavorare come un pittore: scriveva per approssimazioni e velature successive, aggiungendo sfumature a sfumature, colore a colore, rapporto a rapporto, trovando alla fine di questo lavoro inesausto la perfezione pastosa e piena di echi del suo stile fondu. Stile, idee

E quando concepì la sua cattedrale, conquistò proprio il dono che la madre, il padre, il nonno, Emerson gli imputavano di non avere: la volontà. Chiuso in casa, senza vedere nessuno, inflessibile, intangibile, si dedicò soltanto al suo libro, come se nient’altro al mondo esistesse e nient’altro esisteva). Si ammalò. Per amore del suo libro, non volle curarsi. Morì per eccesso di volontà, mentre la sua cattedrale restava incompiuta. Volontà, malattie

[…] la tenerezza morbida e radiosa che si avvicinava agli esseri per condividerne ogni piega; e poi il dono di trasformarsi in una moltitudine; e infine quella specie di sottile, inebriato stato di trance, che gli amici specie nella giovinezza riconoscevano in lui, sia di fronte ad un arbusto sia a una persona sia a una colombe poignardée. Trance

Presenza anagramma di speranze.
Un amico o una persona amata avevano una presenza reale accanto a lui e dentro di lui, sebbene fossero separati dalla distanza di una lettera o di una linea telefonica. Il loro corpo era lì, come l’ostia nel ciborio.

Gli altri sono incomprensibili. Negli altri non si penetra mai. Il mistero che si estende tra due individui non è meno oscuro di quello che divide l’Idea e la Realtà. Idea

Il dolore era la vera arma per penetrare nel cuore degli altri: uno strumento al quale nessuno era pari. Aveva letto Schopenhauer, e come lui pensava che l’amore puro fosse “per essenza pietà”. E pietà, compassione era anche l’amicizia. Lui non credeva che l’amicizia fosse un “voluttà spirituale e casta”, come scrisse una volta a Vaudoyer: l’amicizia dei filosofi e di Cicerone. Non era nulla di così limitato e misurato: ma sofferenza, rinuncia, sacrificio, perdita di sé, immolazione dostoevskijana. Ebbe la rivelazione di cosa fosse per lui l’amicizia, quando ascoltò il Parsifal di Wagner. Giunse alla scena nella quale Kundry bacia Parsifal. In quel momento Parsifal ha un gesto di spavento: preme il cuore con le mani: baciando Kundry, ha rinnovato in sé il bacio di Amfortas, la sua passione, la sua colpa, la sua piaga, che ora sanguina terribilmente nel proprio cuore. Egli è diventato Amfortas, con un’identificazione assoluta, perché la sua sola scienza è: Durch Mitleid wissend, “Sapere attraverso la compassione”. L’illuminazione di Parsifal colpì profondamente Proust, tanto che la paragonò, in una nota della Recherche, all’illuminazione che rivelava al suo eroe, nella biblioteca dei Guermantes, l’essenza della memoria, del tempo e dell’eternità. Amicizia, sofferenza

Rivedere pg. 83

Quando incontrò il primo lillà in fiore, che avrebbe dovuto essere del tutto inoffensivo, venne assalito da una tale crisi di asma, che i piedi e le mani gli divennero violacee come quelle degli annegati. Malattie

Per venti o trenta o quaranta ore, Proust subiva la crisi d’asfissia: non poteva respirare, né parlare, né mangiare, né scrivere: impallidiva, aveva sudori freddi, il corpo gelava; e la febbre saliva fino al delirio.

Proust visse come un gufo: uno strano gufo, figlio della luce, che non sopportava di vivere la notte. Rimase sempre il bambino, di cui racconta il Jean Santeuil. Nella Recherche: “Io, lo strano essere umano, che, attendendo che la morte lo liberi, resta immobile come un gufo e, come lui, vedo un po’ chiaro soltanto nelle tenebre”. morte

Amava Ruskin e le sue montagne ne®vose

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