giovedì 29 aprile 2010

Leggendo il giornale

Addio a Denis Guedi, matematico e poeta divenuto celebre nel 1998 con Il teorema del pappagallo, odissea sull’origine e la storia della matematica.

Denis Guedj, lo scrittore e matematico che nei suoi saggi e romanzi ha messo in scena le scienze, la matematica e la loro storia, è morto a Parigi all' età di 69 anni. A renderlo celebre nel 1998 il suo libro Il teorema del pappagallo (Longanesi, poi Tea), odissea sull' origine e la storia della matematica. Tra gli altri libri: Il meridiano, La chioma di Berenice, Zero.
(28 aprile 2010) - Corriere della Sera

Tutti gli errori di Onfray su Freud

La polemica fra gli intellettuali dopo l’uscita del libro pieno di accuse all’autore dell'«Interpretazione dei sogni»

Michel Onfray si lamenta di ricevere critiche senza essere letto? Ebbene, l’ho quindi letto. L’ho fatto sforzandomi di mettere da parte, per quanto possibile, i vecchi cameratismi, le amicizie comuni, come anche la circostanza — ma questo era evidente — che entrambi siamo pubblicati dallo stesso editore. A dir la verità, sono uscito da questa lettura ancora più costernato di quanto lasciassero presagire le recensioni di cui, come tutti, ero venuto a conoscenza. Non che per me, come invece per altri, l’«idolo» Freud sia intoccabile: da Foucault a Deleuze, a Guattari e ad altri ancora, molti se la sono presa con lui e io, pur non essendo d’accordo, non ho mai negato che abbiano fatto avanzare il dibattito. E nemmeno sono il risentimento anti-freudiano, la collera, addirittura l’odio, come ho letto qua e là, a suscitare il mio disagio alla lettura del libro Crépuscule d’une idole.

L’affabulation freudienne (Grasset): si fanno grandi libri con la collera! E che un autore contemporaneo mescoli i propri affetti con quelli di un glorioso predecessore, che si misuri con lui, che faccia i conti con la sua opera in un pamphlet che, nell’ardore dello scontro, apporta argomenti o chiarimenti nuovi è, in sé, qualcosa di piuttosto sano. Del resto, Onfray l’ha fatto spesso, altrove, e con vero talento. No, non è questo. Quel che infastidisce nel Crépuscule d’une idole è di essere banale, riduttivo, puerile, pedante, talvolta al limite del ridicolo, ispirato da ipotesi complottistiche assurde quanto pericolose; e di adottare — il che è forse la cosa più grave — il famoso «punto di vista del cameriere», di cui nessuno ignora, a partire da Hegel, che raramente sia la persona più adatta a giudicare un grand’uomo o, peggio ancora, una grande opera... Banale: come unico esempio, cito la piccola serie di libri (Zwang, Debray-Ritzen, René Pommier) ai quali Onfray ha l’onestà di rendere omaggio, oltre ad altri testi, alla fine del volume, che già difendevano la tesi di un Freud corruttore dei costumi e foriero di decadenza.

Riduttivo: ci vuole un bel fegato per sopportare, senza ridere o senza spaventarsi, l’interpretazione quasi poliziesca che Onfray dà del bel principio di Nietzsche, che pure conosce meglio di chiunque altro, secondo cui una filosofia è sempre una biografia criptata o mascherata (grosso modo: se Freud inventa il complesso di Edipo è per dissimulare i pensieri pieni di rancore che nutre nei confronti del suo gentile papà e per riciclare le turpi pulsioni che prova verso sua mamma). Puerile: il rimpianto di non aver trovato, nelle «seimila pagine» delle opere complete di Freud, la «schietta critica del capitalismo» che avrebbe riempito di soddisfazione Michel Onfray, creatore dell’università popolare di Caen. Pedante: le pagine in cui Onfray si chiede con gravità quali debiti inconfessabili il fondatore della psicanalisi avrebbe contratto, ma senza volerlo riconoscere, verso Antifone di Atene, Artemidoro, Empedocle o verso l’Aristofane del Simposio di Platone. Ridicolo: è la pagina in cui, dopo oscure considerazioni sul probabile ricorso di Freud all’onanismo, poi un non meno curioso tuffo nei registri degli alberghi, «la maggior parte lussuosi», dove il viennese avrebbe protetto, per anni, i suoi amori colpevoli con la cognata, Onfray, trascinato da uno slancio da poliziotto della Buoncostume, finisce con il sospettarlo di aver messo incinta la suddetta cognata che, all’epoca, era giunta a un età in cui questo tipo di lieto evento si verifica, salvo nella Bibbia, molto raramente.

Il complotto: come nel Codice da Vinci (ma la psicanalisi, secondo Onfray, non è forse l’equivalente di una religione?), il complotto è l’immagine vagheggiata di giganteschi «container» di archivi sotterrati, in particolare, nelle cantine della Biblioteca del Congresso a Washington, alle cui porte veglierebbero milizie di templari, freudiani cupidi, feroci, astuti come il loro venerato maestro. Infine, il punto di vista del cameriere: è il metodo, sempre bizzarro, che consiste nel partire dalle presunte piccole debolezze dell’uomo (l’abitudine freudiana di scegliere egli stesso — chissà perché! — il nome di battesimo dei figli «sulla base della propria mitologia personale»), dalle sue non meno presunte stranezze (sete di gloria, ciclotimia, aritmie cardiache, tabagismo, umore oscillante, piccole prestazioni sessuali, paura dei treni: non invento nulla, questo catalogo di «tare» si trova nel libro); eventualmente dai suoi errori (come la dedica a Mussolini, da sempre nota, ma che Onfray sembra scoprire e che, estratta dal contesto, lo fa sprofondare in uno stato di grande frenesia) per dedurne la non validità della teoria nel suo insieme. Onfray raggiunge il colmo quando, alla fine del libro, ricorre addirittura al testo di Paula Fichtl, cioè ai ricordi di colei che fu la cameriera, per cinquant’anni, della famiglia Freud e poi dello stesso Sigmund, per denunciare le relazioni dell’autore di Mosè e il monoteismo con il fascismo austriaco. Tutto questo è desolante. Mi riesce penoso, in tutti i sensi del termine, ritrovare in tale tessuto di banalità, più stupide che malvagie, l’autore di libri — fra gli altri Il ventre dei filosofi (Rizzoli, 1989) — che vent’anni fa mi erano parsi così promettenti. La psicanalisi, che ha visto ben altro, si rimetterà. Quanto a Michel Onfray, ne sono meno sicuro.

Bernard-Henri Lévy
(traduzione di Daniela Maggioni)
29 aprile 2010

Cultura Anniversari A cento anni dalla morte, Iperborea ripropone uno dei capolavori dello scrittore. Il rigore morale e le contraddizioni della vita
Quando la patria dimentica i padri
L' eredità riscoperta di Bjørnson, Nobel norvegese Il luogo e il tema In una natura desolata, scienza e fede si contendono vanamente la soluzione del mistero legato all' esistenza

I padri non hanno vita facile, anche e specialmente in letteratura, e non godono di buona stampa, a differenza dei figli, cui va l' istintiva solidarietà e simpatia perché li si vede incompresi, generosi pur nelle trasgressive ribellioni, fragili anche nell' aggressività magari ingiusta, nobili nella radicalità pur prevaricatrice. I padri rappresentano la responsabilità, con tutta la grandezza, la seriosità e la fatale compromissione legate ad ogni responsabilità; quest' ultima è più difficile e complessa della passione, ma è certo meno attraente. Siamo tutti dalla parte di Edipo che uccide Laio; anche nella parabola evangelica il protagonista è il figliol prodigo, non il padre, che pure ha il compito più ingrato e difficile, quello di accoglierlo con slancio ma anche con avveduta attenzione, per far capire all' altro fratello che non gli si vuole far torto. In quella parabola, che per la fede cristiana è scritta dalla stessa verità divina, il padre è figura di Dio e il figliol prodigo dell' uomo; evidentemente gli uomini, con il loro disordine e le loro cadute, destano, per la retorica pappa del cuore, più interesse di Dio con la sua universalità che deve tener conto di tutto e di tutti. Pure in letteratura i grandi padri - gli scrittori che esercitano un eminente ruolo rappresentativo e simbolico, padri della Patria, campioni della Libertà e del Progresso, eroi del Dissenso - corrono forti rischi. In genere, dopo un' iniziale periodo di gloria marmorea, incorrono nell' oblio o nell' irrisione. Bjørnstjerne Bjørnson - il grande scrittore norvegese di cui ricorre il centenario della morte e del quale Iperborea ripubblica uno dei capolavori, Al di là delle forze umane, ottimamente tradotto e presentato da Giuliano D' Amico - è uno di questi numi tutelari prima osannati e poi accantonati. Bjørnson ha tutti i requisiti per subire l' ingiusto destino dei grandi Padri Fondatori. Premio Nobel nel 1903, autore del testo dell' inno nazionale della Norvegia divenuta Stato indipendente nel 1905, egli è stato celebrato in tutta Europa (D' Amico ricorda, ad esempio, le solenni commemorazioni ufficiali per la sua morte in Italia). Autore poliedrico di racconti paesani - come il nostalgico e struggente idillio Synnöve Solbakken - romanzi borghesi di critica sociale e soprattutto di possenti drammi, Bjørnson ora sembra quasi dimenticato. Democratico generoso, si è battuto per le minoranze allora oppresse - ad esempio per gli slovacchi - ed ha affrontato grandi temi ottocenteschi, la critica alle istituzioni borghesi, all' ipocrisia sociale e alle menzogne convenzionali su cui si reggono le gerarchie politiche, economiche ed etiche. Nutrito di cultura positivista, è stato un progressista radicaleggiante, non senza evitare il rischio di un moralismo ottimista impari alle inquietudini e alle lacerazioni della vita e soprattutto della modernità. In ogni responsabile padre - di famiglia o della patria - ci può essere un pizzico del padre di Armando nella Signora della camelie, che allontana la donna pericolosa e irregolare amata dal figlio, nel quale peraltro ci può essere un pizzico del bambino viziato cui tutto è dovuto. «Falso come un oratore ufficiale», disse Strindberg di Bjørnson. Ma il grandissimo Strindberg era, in questo caso, irresponsabilmente ingiusto; del resto aveva il bisogno di esserlo, nella parabola della sua vita e della sua creazione. C' è una grande, geniale inquietudine in Bjørnson, una fortissima sensibilità per le contraddizioni della vita, che egli coglie e rappresenta con grande potenza poetica. Negli anni della sua vita e della sua opera, la Norvegia, questa incantevole e appartata periferia d' Europa, diviene una capitale della letteratura mondiale; dai suoi fiordi solitari, dalle sue aspre montagne e dai suoi boschi silenziosi, nasce una letteratura che esprime, con straordinaria genialità, la trasformazione epocale che stava avvenendo nella storia d' Europa e nella psiche dell' individuo, mutandolo radicalmente. Sono grandi voci come quelle di Lie e Kjelland, i cui bellissimi romanzi borghesi ispirarono Thomas Mann; il genio assoluto di Ibsen, forse ancora insuperato nella rappresentazione di una drammatica lacerazione della nostra civiltà non ancora sanata; e appunto Bjørnson. Nato a Kvikne, fra le desolate montagne, e cresciuto nella parrocchia paterna di Nesset, anche Bjørnson è uno di quei «figli di pastori» cui la letteratura tedesca e nordica deve tante grandissime pagine poetiche e filosofiche che hanno indagato a fondo la crisi della civiltà. Pure Bjørnson, come Lessing o Nietzsche, ha appreso dalla parrocchia luterana un' esigenza di rigore morale che spinge ad analizzare spietatamente lo stesso Cristianesimo e le sue Chiese, contestandole in nome di un bisogno di verità assorbito dal Cristianesimo stesso. Come altri, Bjørnson ha denunciato il rigido dogmatismo della Chiesa luterana in nome di un più libero cristianesimo del cuore. Come quella del ben più grande Ibsen, la sua opera vive di una feconda contraddizione tra la rivendicazione della vitalità e una severità morale che se si ribella alle norme convenzionali, pure soffoca, con la sua stessa inflessibilità etica, i desideri e le pulsioni anarchiche della vita. Al Cristianesimo viene imputato di reprimere la vita, ma esso rivela invece, a Bjørnson come a Ibsen, una terribile forza vitale, capace di guardare in faccia la selvaggia demonicità dell' esistenza e della morte, dell' eterno e dell' effimero che entrambi annientano l' uomo e che il nobile moralismo laico è impari ad affrontare. Il Cristianesimo si rivela affine alla travolgente potenza della natura celebrata e temuta in Al di là delle nostre forze; una smisurata natura nordica, ignara di umanesimo e di misura. Dinanzi ad essa, lo scontro tra l' uomo di scienza e l' uomo di fede è una piccola, ma non per ciò meno tragica commedia intellettuale. Con il suo positivismo, Bjørnson è certo più vicino all' uomo di scienza, ma è l' uomo di fede, il pastore Sang - al quale egli è ideologicamente avverso - quello più capace di resistere alla distruttiva violenza del vivere. Scienza e fede si contendono vanamente la spiegazione del mistero; alla letteratura, ha scritto Javier Marías, compete raccontare il mistero senza spiegarlo ed è ciò che fa con alta poesia Al di là delle nostre forze. RIPRODUZIONE RISERVATA

Magris Claudio, 28 aprile 2010, Corriere della Sera

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